Franco Pedrina

Gian Carlo Artoni

Personalmente, credo che non ci si renda quasi mai esatta ragione dei veri sentimenti o emozioni che agiscono in noi dal profondo condizionandoci; ancor meno ritengo provabile questa consapevolezza in chi si appresta a una qualsiasi esperienza creativa, che può essere sollecitata da una occasione pur banale, anche se non per questo quelle occulte motivazioni cessano di essere presenti e di affiorare poi nei risultati.
A tale regola non si sottrae Pedrina, che certamente compie il suo destini dipingendo, ma che ritiene suo dovere di uomo non chiudere gli occhi di fronte alla cronaca del proprio tempo.
Mentre osservo i quadri di questa mostra, infatti, ripensando alle cose essenziali che su Pedrina hanno scritto prima Valsecchi e poi Tassi, me ne erano abbastanza chiare le motivazioni occasionali, sulle quali era stata scaricata la violenza della ribellione: il paesaggio si stringe attorno ad alcuni segni costanti che assomigliano troppo a un costato, a vecchie ossa scarnificate - o a un groviglio disperato di viscere - per essere soltanto rami, sassi o radici; tanto più che quelle “cose” portano con sé un passato, nel quale costantemente Pedrina fruga pietoso. Non mi sembrava, tuttavia, che quegli elementi potessero, da soli, reggere la carica emotiva di cui costituivano i poli, fino a che mi ha colpito il vero (e più ampio) limite del racconto, quando mi sono accorto di una crudele rassomiglianza non di quelle sole occasioni, ma dell’intero paesaggio al corpo umano squartato e straziato.
L’onda emozionale che aveva spinto Pedrina ad esprimersi, cioè, è tracimata dal fondo, al punto che quelli che io ritenevo essere i simboli prescelti della sofferenza(i tralci tormentati della vite, i rami contorti del fico,un tronco spoglio,i relitti di un vicino diluvio - che han sostituito l’ossessivo gabbiano assassinato di altri quadri -), diventano soltanto elementi di un più compiuto discorso.
Per questo la partecipazione di Pedrina è più appassionata di quanto egli stesso confessi: il suo mondo (non il suo ricordo, quindi, ma il suo presente), se non si nega alle annotazioni di diario (alla ispirazione, cioè, che trasfigura felicemente le cos concretamente recepite), conserva indelebile il marchio delle guerre, dei campi di sterminio, di tutte le strazianti ingiustizie delle quali l’uomo è artefice e vittima; così da duplicare il dolore (stavo per dire la rabbia) nella ribellione e nel rimorso.
Per questo in Pedrina, mentre si appresta a dipingere, quella onda si gonfia inavvertita, spingendo i quadri l’uno verso l’altro, in un racconto lungo come la vita.
Ma nel ricreare la natura a misura dell’uomo, avviene il recupero della personale vicenda del pittore e riaffiora costante quel grumo di affetti rivolti alla sua terra di origine, che non è più rimpianto, tanto appare carnale.
Esso non costituisce soltanto la tavola sulla quale distendere le immagini del suo essere veneto, ma uno strumento di lavoro: solo chi ha avvertito lo struggente incanto di una laguna, ove gli elementi si mescolano e si confondono, può creare dal di dentro questi paesaggi, mescolando a propria volta aria, acqua, alberi e frutti, al punto da sostituire al cielo proprio quella luce umida e struggente che è forse il risultato più emozionante di Pedrina.
A parte che così, chiarendo i contorni dell’episodio, viene trovato il giusto limite a quel tumulto di sentimenti, a quelle innumerevoli cose da dire che urgono senza mai traboccare.
La furia di Pedrina, che distrugge e contorce fino al limite dell’abisso l’apparenza delle cose, si placa nel loro recupero, come avviene quando il colore violetto del frutto di fico serve a creare attorno all’albero - bloccando il racconto - una improvvisa magia.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Correggio, Parma, novembre 1973)

 

 

 


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